Firework


A star seduti in questa macchina, sento un gran freddo. Sto guidando verso il Municipio con le mani che ungono il volante e sento un gelo, che entra con lama sottile dal finestrino, sulla pelle bagnata. Lo stesso freddo che si prova quando si esce dalla doccia: nudi, con il corpo caldo e fumante mentre la finestra del bagno è spalancata e fuori piove; brividi che fremono le membra, accompagnati per mano da un ticchettio di denti. Chiudo il finestrino.
Con fare lento e sibilante la lamina di vetro inizia a ripararmi e il motore sembra quasi frinire al pari di mille cicale nei campi di grano fruscianti nel vento, bianchi, al chiarore delle stelle.
Le ruote sobbalzano sui cocci e sulle buche delle strade veronesi che san di polvere; le attraversi ed è come calpestare la cazzuola e gli arnesi del muratore panciuto. Dopo un temporale, senti il calore del Sole che infiammò il cuore della sventurata affacciata al balcone, ormai ricordato nelle foto dei turisti.
Schiaccio l’acceleratore, voglio arrivare in orario, devo esserci! Ho l’appuntamento più importante della mia vita e, spero, anche l’ultimo.
Nel momento in cui mi accorgo che devo affrettarmi per attraversare l’incrocio, il semaforo diventa rosso. I freni nitriscono mentre io appoggio, calmo, la testa fradicia sul sedile della macchina, impregnandola di quell’odore acre che ormai è divenuto parte di me.
Nell’interminabile attesa prendo una sigaretta, la poggio sulle labbra impastate da ragnatele di bava, poi, a un tratto, mi blocco, impietrito: Che cazzo fai? Vuoi compromettere tutto per una stupida sigaretta? Rassegnato, la butto ancora intatta sul sedile del passeggero e con un lungo sospiro caldo dalle narici mi volgo, svogliato, verso il finestrino. Un signore con il motorino allineato al cofano della mia macchina attende, placido, lo scatto della luce verde. Giacca, cravatta, una ventiquattrore poggiata tra le gambe, per evitare che cada. Uomo distinto che va a lavorare, già: uomo e lavoro. Ho perso entrambi da tempo, io.
Stringo le mani sul volante, così forte che una goccia, disegnando variopinti giochi di luce, mi cade dal dito indice e s’immerge nel tappetino ruvido, espandendosi.
La strofino con un piede, per mandarla via, per non vederla. Chiudo gli occhi, formando attorno a questi delle ondine di pelle raggrinzita: per mandar via il mio passato, per non vivere questo presente. Come se il gesto di chiudere gli occhi sia la suola piena di terra che asciuga la goccia; come se il mio vissuto fosse una goccia sul tappetino di una macchina: il mio passato vale molto di più! Purtroppo la vita ha fatto sì che il mio futuro sia quella goccia di benzina.
Luce verde, la macchina parte.
Parte, come ho fatto io. Per toccare questa Italia che pareva una donna fin troppo bella; per vivere in questo Paese, non per morirci di fame continuando a cadere per colpa di lavori traballanti come le stoviglie nel fremito dell’Aquila. In questa città, con le suppellettili ancora integre, ci ho vissuto alcuni mesi, da solo, spaventato e con il ricordo vivo, quasi più di me, della mia Africa.
Non ho mai percepito la mia emigrazione come un peso: al momento della partenza mi sono definito un uomo nel mondo e di mondo, questo mi ha gonfiato il petto di fiori e sogni.
Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire

Nell’illusione, che la povertà e la giovane età portano con sé, mi pareva d’essere un esploratore che mette piede in terre sconosciute e ne esce sempre vittorioso. Ma nella realtà non sei Harrison Ford con in mano una frusta e nel fodero una pistola; nella mia vita sei un ragazzo marocchino di ventisette anni con dei sacchi di sabbia e dei mattoni.
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell’aria torbida
sospesi


(G. Ungaretti, Silenzio, 1916)

Sei buono a fare il muratore?
Non lo so signore, non l’ho mai fatto prima.
Ma ti piace farlo?
Non importa signore, qualsiasi lavoro va più che bene.
A qualsiasi condizione?
Si signore!
A qualsiasi paga?
Sì signore!
Va bene anche un pagamento in contanti?
Sì signore!
Anche se le banconote sono un po’ sporche e stropicciate?
Sì, signore.

Stipendi magri messi nel tuo pugno ancora sporco di calcina e cacciati alla rinfusa nella tasca dei pantaloni. Sì, signore, va bene signore.
Annuisci sempre più e sempre più forte; che t’importa? L’importante è che ti tenga lì a scaricare ancora più sacchi e a spezzarti la schiena riarsa al Sole.
Ti fa male?
No, signore.
Riesci a tirare avanti ancora due ore?
Certo signore!
Neghi il vero per dimostrarti forte, ma la schiena ti fa davvero un gran male, ma siamo giovani o no? Siamo la forza! Ma come una statua di sale, al primo temporale sei il primo a cadere, liquefacendoti. Sono giovani: hanno vigore, hanno ancora tanti sogni; sono la forza lavoro, quindi licenziamoli: logico.
Guarda, sei un bravo ragazzo: responsabile, attaccato al lavoro ma sai … c’è la crisi, bisogna fare dei tagli, ho fatto molti sacrifici …
Si, signore … Certo, signore … Capisco signore …
“Sono giovani: hanno vigore, hanno ancora tanti sogni” da prendere a martellate come fosse metallo caldo, per modellarli alla società, per adattarli alla crisi. Far capire loro che l’unico posto fisso è mangiarsi le unghie, per la disperazione.

Ho annuito così forte nella mia vita che adesso, stando in macchina, mi tocco freneticamente il collo: indolenzito e stanco. Saranno queste strade fatte di ciottoli! Ti fanno sobbalzare di qua e di là, pare di cavalcare ampi spazi aperti con i monti alle spalle e gli zoccoli che riempiono l’aria di clamore; invece no: il clamore equino è solamente pietra granitica, gretta, squadrata, lavorata.
Somiglia molto alla faccia di Fulvio, compagno di merende e portatore sano della mia stessa malattia, endemica, infetta: la precarietà.
Ogni mattina all’Aquila mi svegliavo mentre il Sole dormiva ancora sicuro e placido tra i manti erbosi, la brezza mattutina mi faceva tremare mentre bussavo alla porta di Fulvio. Con un cigolio di sottofondo entravo in casa sua: mi preparava il caffè.
“Il caffè buono si fa solo in Italia” e aveva ragione quel dannato lavoratore. La moka vecchia custodiva segreti, odori e suoni: sinfonia improvvisata e unica ogni giorno. Adoravo vedere il caffè salire con la schiuma densa del mare e con il rumore simile al treno che, imprevedibilmente, da un giorno all’altro mi portò a Bologna.
Chiusa una porta, si apre un portone, e io aspettavo mansueto davanti a questo portone, in attesa che si aprisse per me. Ma scoprii che il semplice bussare non basta, per aprire il tuo futuro devi stringere i denti fino a sentirli stridere e stare sveglio le notti che diventano sempre più fredde.

Così un giorno mi svegliai a Bologna, attraversando buona parte di quel crine teso e fragile che è l’Italia nel mondo, la attraversai come l’equilibrista nel suo numero più sorprendente. Ma io come pubblico avevo solamente mia madre che, con il fiato sospeso e pregando che io non cadessi, mi telefonava e mi seguiva pedissequamente con occhi sussultanti.

Mamma non ti preoccupare, sto bene! Si mamma.
Mi senti stanco? Ma no figurati, è che la linea è disturbata.
Dai mamma adesso non ti mettere a piangere, ti ho detto che sto bene!

Come un equilibrista: davanti al pubblico il suo corpo è fiero, sicuro, ogni suo passo pare calibrato e studiato; ma in realtà vedi quel crine così teso, sempre più esile, fino a capire che stai camminando nel vuoto.

A Bologna cambiai tre lavori in cinque mesi e mutai i miei sogni in speranze vane nel giro di pochi attimi. La speranza di essere come l’uomo in motorino che pochi secondi fa attendeva con me lo scattare del semaforo, divenne solamente la tirannia dei miei incubi, che chiudevano il quadretto idillico di lacrime e sudore, ogni notte.
Vagai, beduino, alla ricerca dell’oasi dove immergere i piedi. Verona sembrava il luogo perfetto dove accendere i riflettori sul palcoscenico della mia vita. Ma la tragedia o la commedia sono solo frattura tra l’immaginario e il reale, non sapendo quale dei due sia veramente affidabile. La mia vita, invece, è mia; il futuro è degli altri. Il beduino non ha futuro, ha solo tanti passi da fare per sopravvivere e sperare che l’oasi che scorge non sia illusione, che il suo cammino non sia solamente un girovagare su di un palco.
A Verona vivevo bene con un lavoro da magazziniere, vivevo l’amore di due dolci occhi azzurri che facevano ridere il mio viso e fremere le labbra. Il magazziniere presto si stancò di stare presso il mio corpo, se ne andò, senza lasciar traccia. Ma con la forza che mi davano quei dolci occhi si risvegliò il muratore, prendendo possesso di me, diventai tale, per la seconda volta.
Cenere eravamo e cenere ritorneremo, e io cenere sarò.
Ricominciai a lavorare immerso in nuvole di polvere che penetravano pori e naso. Mattone dopo mattone iniziai a costruire una vita con delle fondamenta, ma il cemento che mi avevano venduto era marcio.
Con adeguato tempismo mi trovai di fronte ad una busta di bianco esplosivo dove erano contenute tutte le lacrime delle notti successive.

Inizio a cercare parcheggio, il municipio è di fronte a me. Mi accorgo che c’è una manifestazione e per questo motivo sto girando intorno alla stessa piazzola da minuti, sperando in un posto libero.
Finalmente lo trovo; mi accorgo che ormai è il mio momento, sono pronto per … mi fermo. Ho paura.
Stringo il cambio, fino a far stridere il cuoio, non puoi avere paura! Proprio adesso, sei all’ultimo gradino per salire su quella nave, non è poi così alto. Questa volta riuscirai a raggiungere la metà.
Non servono più le scuse, come quelle che i datori di lavoro utilizzarono per mandarti via, o come in quella busta bianca, che oltre alle lacrime del mio futuro conteneva anche i prossimi miei quattro mesi di vita, non pagati. Dopo questa notizia vidi quei bellissimi occhi azzurri dell’amore mio rotolare verso la strada ignota, correre a perdifiato, strattonandomi, e non tornare mai più.
Ruggendo
muta in
quella polvere
mi soffocherai

Poi
socchiuderai le palpebre

Vedremo il nostro amore reclinarsi
come sera

(G. Ungaretti, Giugno, 1917)

Lavoro, amore, vita: tutto crollato; come castelli di carte sulla sabbia del mare.

Scesi dalla macchina, mi bagnai un altro po’, per avere un effetto sicuro; siamo arrivati al momento in cui il pubblico resta con il fiato sospeso: il grande attore sta eseguendo la sua scena migliore; l’equilibrista correrà all’indietro su quel filo, per poi finire, entrambi, con l’inchino, ingrassando di applausi.
Ed eccomi qua: al centro del mio ultimo palcoscenico, a luci spente, con un pubblico distratto. No, non disturbate il tecnico luci, davvero, non mi serve neanche una lampadina per farmi vedere da tutti, mi accendo io.
Con gesto teatrale prendo l’accendino e in un attimo il mio corpo è immerso in onde di fuoco. Attorno a me si crea una voragine, il mio palco ha preso forma, tutti gridano e si disperano, il mio pubblico ha voltato la testa per guardarmi. Brucio e mi dispero, ma attenzione, non sono l’unico: ogni lingua di fuoco è dedicata al ragazzo, all’uomo, alla donna, trampolieri inesperti in pasto ai leoni. A quell’esercito di persone che invadono i telegiornali, monopolizzano le notizie, preoccupano i politici e sostengono il ruolo di chi, in quella grande rosa che è la vita, si è preso solo le spine.
Dedico il mio gesto a loro, perché non ripetano.
Io non sono più uomo, brucio perché voglio rinsecchire ogni brutto e canuto pensiero e rabbia; voglio seccare io stesso e desiderare di essere l’ultima foglia secca di un albero mutilato.
L’ultima però!
Non disperate, dispiacetevi per me, ma non per voi, siete ancora forti, vivi e uomini; non lasciate che il lavoro sia il Demiurgo della vostra vita, bensì il contrario: l’uomo attraverso il lavoro plasmi questo mondo che non ci piace.
Non disperate per voi, non cadete come io feci, altrimenti le mie fiamme saranno solo un vano modo per trattenere il pubblico, ed io, da attore di me stesso, diverrei il folle di corte.
E intanto continuo a bruciare nel mio momento di gloria, nell’attimo in cui la mia forma si trasforma in cenere.
Piccoli rigagnoli di fumo nero descrivono in cielo danze rabbiose con occhi decisi; e, stemperandosi, compongono sulle nuvole come la china sulla carta.

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(G.Ungaretti, Natale, 1916)