Gli ultimi saluti

Voglio annullarmi in un bicchier d’acqua.
Svanire con la nuvola più nera,
essere leggero come l’ultima goccia.
Ma non finirà mai questo eterno peso.
Non finirà mai.
Voglio sbattere i pugni al vento,
distruggere ogni rosa
e spezzare le parole.
Sarà inutile,
niente può finire scomparendo.
Senza neanche l’ultimo saluto.

Indispensabili compagnie


“Tesoro, devi proprio andare?”
“Sì Marta, lo sai, è importante per me, ma soprattutto per loro.”
Marta si strinse nelle spalle e arricciò la bocca, assumendo un espressione da bambina:
“Non ho voglia di restare sola” e strusciò la testa sul petto di Francesco.
A Francesco piangeva il cuore a vedere tutta quella tenerezza, quella testa piena di capelli fini e lucenti faceva uno strano rumore contro la polo azzurra che indossava; ma doveva andare. La “Cena dei cinque” non avrebbe avuto significato senza la sua presenza: Ale, Chris, Leo, Prelo e lui. Inseparabili dal liceo per continuare a ridere di quegli anni avevano deciso di incontrarsi una volta all’anno per cenare insieme, mangiare e bere a volontà per poi distendersi sulla sedia con un buon sigaro in mano e un liquore per assopire i sensi, ridere e star bene.
Come quella volta che durante l’intervallo presero tutti i crocefissi dalle classi e li nascosero nella cartella di Cremosini, ci avevano riso fino alle lacrime mentre aspettavano davanti all’ufficio del Preside Scineggio.
Gli nasceva già un sorriso mentre aveva gli occhi velati dai ricordi e accarezzava quella testolina che si stava mettendo a fare le fusa.
“Dai amore, torno presto!” le fece un sorriso sincero.
“Ok, amore, ma mi raccomando non bere troppo!” con quell’indice sollevato davanti alla faccia a Francesco pareva di essere tornato indietro nel tempo quando sua mamma lo sgridava per aver rotto l’ennesimo bicchiere.
La prese e la baciò, stringendola forte e non lasciandole il tempo di respirare.
“Ci vediamo dopo, tu non stare in pensiero però..”
Prese la moto.
Con la macchina non ci arrivo più.
Il motore rombava nel garage, pareva un leone in gabbia; diede gas e il leone si incazzò da morire.
In mezz’ora sono là.
Prese e salì e il leone sotto di lui si quietò, addomesticato a dovere e schizzò fedele sull’asfalto.
Doveva andare nella terra comprata da Leo (Leonardo Biati) un paio di anni fa, non ci aveva mai messo piede ma gli avevano spiegato la strada e lui se l’era appuntata su di un foglio dimenticato, ovviamente, a casa.
Ci arrivò con un po’ d’intuizione e molto (ma davvero tanto) culo, ma ci arrivò. Quando posteggiò la moto e si tolse il casco, li vide.
Erano seduti a un tavolo posto fuori da un cottage costruito con i mattoni in cotto a vista. Il tavolo era imbandito di bottiglie di vino, assaggi, crostini e anche le candele.
Cinque sedie, quattro occupate da persone con il vino in mano che vociferavano sommessamente.
“FRAAAAAAA” un coro lo ospitò e lui sorrise a pieni denti.
La cena si svolse come al solito: tanto vino che alleggeriva i pensieri, molte risate sui tempi passati (come quella volta che Prelo si portò una in macchina per farsela e mentre era lì che si dava da fare l’automobile prese a camminare da sola, lungo la discesa, perché quel cretino si era dimenticato il freno a mano!) e qualche pensiero al futuro.
Tra i fumi di una sigaretta Francesco si eclissò per un minuto e si immaginò la sua Marta che guardava la tv e ogni trenta secondi fissava l’orologio con impazienza, battendo a ritmo di nervi un piede sul tavolino di sala. Sorrise e si intenerì. Poi decise; si alzò di scatto: “Ragazzi devo andare un attimo via, aspettatemi qui”
“Ma c’è il dolce! Dove cazzo vai?”
“Non vi preoccupate, tenetene un po’ da parte, ritorno”
Diede un paio di pacche sulle spalle e corse verso la sua moto.
“Ma dove va?” Leo con quegli occhiali rotondi alla John Lennon pareva l’intellettuale che non riuscì mai ad essere.
“Lo sai com’è fatto! È nostro amico anche per questo” Chris lo difendeva sempre a Fra, per qualsiasi cosa.
“E’ colpa di quella Marta, si è fottuto il cervello” per Prelo le donne erano il cancro del mondo, figuriamoci.
Francesco intanto si stava avvicinando sempre di più agli amici, ma ‘sta volta non era solo.
Dopo quasi due ore i quattro amici, con il secondo sigaro in mano e con il terzo bicchierino di rum iniziarono a perdere le speranze sul ritorno di Francesco.
“Il gelato si sarà sciolto” disse sommessamente Ale.
“Già..” Chris ammazzò in un colpo solo il rum e se ne prese un altro po’, per quella sera non avrebbe dovuto guidare c’era Leo, buonanima che era, che lo accompagnava.
C’era un silenzio e soprattutto l’alcool che conciliava il sonno quando il telefono di Ale cominciò a squillare.

“Pronto..”
“Pronto signor Marrighi?”
“Sì, sono io..” Ale stava lottando con gli occhi pesanti.
“E’ un conoscente di Francesco Blini?”
“Sì..perchè?”
“Siamo la guardia medica, il suo amico ha avuto un incedente con la sua moto a bordo con lui c’era anche una donna: Marta Sorengo. Il suo amico andava a velocità sostenuta e in una curva non ha visto una buca sul terreno che li ha fatti sbalzare e sono finiti per terra, il suo amico è andato a sbattere la testa e la schiena contro il guardrail, Marta Sorengo è stata ritrovata riversa sul terreno con una gamba sotto la motovettura. Ho chiamato lei perché l’ultima chiamata eseguita da Francesco è stata a lei.”
Ale aveva messo il vivavoce; alla fine della chiamata il silenzio si era fatto cupo, un bicchiere era caduto. Frantumandosi.

Una marea di luce, bianca e calda. Si muove una mano, poco, impercettibile suono di lenzuola.
Bip..
Il palato secco, ad inumidirlo fa quasi male.
Anzi, fa male TUTTO.
E ancora quel Bip..imperterrito e stanco.
Francesco aprì gli occhi. Era in ospedale, chissà perché..
Tentò di girarsi ma fu paralizzato da un gesso che lo rivestiva da collo a culo, testa fasciata e tamburellante. Girò gli occhi il più possibile e vide accanto a sé un letto vuoto, con quattro rose rosse poggiate sul cuscino. Marta con una gamba ingessata era in piedi, alla finestra, pareva un angelo.
Francesco tentò di sedersi senza farsi sentire troppo e vide sotto di lui quattro ombre a terra.
Ale, Chris, Leo e Prelo dormivano beati.

Sabbia e falò

“Cri! Muoviti! Ci sono ancora questa da scaricare”
“Arrivo”
Faceva caldissimo, ero già tutto sudato e la serata non era neanche iniziata: Ferragosto e come sempre eravamo in spiaggia per festeggiare.
“Dai prendi questa cassa di birre e anche questo sacchetto, così abbiamo finito.”
Avevo la lingua di fuori da quanta afa c’era, come un cane portato a spasso dal suo padrone.
“Scusa ma non puoi prendere qualcosa anche tu Albi?!”
“Aspetta, sto facendo una cosa al telefono”
Un sibilato “Fanculo” mi ringhiò in bocca.
Appena arrivato in spiaggia non esitai un minuto a sciogliermi le braccia da tutto quel peso. Con un tonfo sordo la cassa scavò un posto comodo dove stare. Mi tolsi la maglietta e senza aspettare mi gettai in acqua.
Cazzo se è fredda!
Presi un respiro e immersi tutto il corpo sotto, testa compresa. La temperatura corporea si abbassò di botto, le pupille scattarono indietro e io sospirai esausto.
Ma dov’è finito quel cretino? Non dirmi che sta parlando al telefono con Daniela!
Poi lo vidi, stava iniziando a montare la tenda.
Due minuti ed esco.
Stavo a galla sul pelo dell’acqua con le orecchie completamente inondate dall’ultima onda, il sole basso faceva scivolare le gocce sulla pelle.
Mi immersi completamente, pronto con una bracciata ad andare verso riva; mi fermai. Sul fondale riluceva qualcosa: con la vista appannata cercai di capire.
Il ciondolo! E’ per forza lui!
Quel maledetto ciondolo, buttato in mare da quelle stesse mani che ora nuotavano, mani invidiose di Albi e lei, Daniela. Avevo passato anni a guardarla, a ridere con lei, pensando ai suoi fianchi scoperti e alle caviglie fini come fili d’erba. Anni che affogarono congelati dal suo sguardo, posato su di lui. Feci uno sforzo, mi immersi con la mano protesa verso il luccichio, ero quasi arrivato a toccarlo quando una saetta mi attraversò la gamba destra, una grossa bolla della poca aria che mi rimaneva sgattaiolò dalla bocca.
Porca..un crampo!
Annaspavo su scale invisibili e impalpabili.
A-I-U-T-O!
Avevo un peso al posto dell’arto, il terrore avanzò, l’aria nei miei polmoni si ridusse a poche briciole. Sentii il sangue scorrere più lento mentre il cuore era salito fino alle tempie.
A-I-U- …
Silenzio.
Poi una mano con biondi peli sul palmo mi prese per un’ascella e mi trasportò in superficie, aprii la bocca e i miei polmoni si gonfiarono sino ad esplodere, il diaframma si sbloccò e mi uscì un verso disumano dalla bocca.
“Cazzo fai? Vuoi morire?” Albi mi guardava con un sorrisino ebete in faccia.
“No, è che avevo visto..”
“Che cosa?”
“Niente” sorrisi.
Niente, quel ciondolo non è niente.
“Allora lo vedi che sei scemo?!” iniziò a ridere con la bocca larga e gli occhi stretti come fessure.
Arrossii per la vergogna e gli mollai un pugno sulla spalla.
“Dai, non te la prendere, ho una cosa per te!”
Tirò fuori dall’acqua l’altra mano che stringeva per il collo due birre fredde.
Brindammo, il sole sparì e i falò presero vita.

Odore

Lo senti?
Dolce, l’odore?
Quando ti alzi,
vuoto come
il bicchiere, strappato dal tavolo.
Pesante come il caldo della
notte.

Lo senti?
E’ l’odore del dolore.

Uomo segugio, trovi sempre
il solco delle tue lacrime
con dita gonfie
sciolte nella sabbia.
Dimenticati.
Bastano i drappi bianchi
di chi balla.
Capelli sciolti,
Una mano
da cui mangiare
sudore.

Non sentirai altro che
il caldo buono.

Una notte di stelle

Tocca a te,
Fai finta di cancellare le parole.
Io continuerò
a tappezzare il cielo
con i tuoi sguardi.

Fai finta
di poter vivere tutta la vita
in una notte.
Poter prendere le stelle
E farle girare in un dito.

Fai finta di vivere senza silenzi
Nè grida.

Fai finta di essere me.

Nel mio mondo
io farò solo finta di non morire;
il resto sarà tutto vero.

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Lacrime di vetro

Ho trovato tra il verde la prima violetta: è finito l’inverno.
Mi metto le mani in tasca per tirar fuori un sorriso. Con il vento, stracci di nuvola vagabondi, riempiono il cielo, sfondando il blu di quel muro celeste.
Primavera, un’altra volta e, come sempre, il sole e la pioggia. Dardi d’acqua che lavano la brina dalle zolle e quel sole che scalda le ossa, mentre si fuma. Perdonate il mio vaneggiar, leggero come il volo della rondine, caotico come il brusio dell’ape. Continuo a camminare in questo prato, la mia orma pare crescere da un passo all’altro. Se tornassi indietro, vedrei con occhi da adulto impronte bambine e ne riderei, alzando un angolo della bocca.
Cammino con lo zaino penzolante dalle spalle; dentro ci ho messo tutto: il mio nome, il mio ricordo e il mio inverno, pronto a partire adesso che assonnano le ombre di neve.
Un inverno intero con la testa appoggiata alla finestra, con le lacrime che solcarono il viso, battistrada del mio amore. Amore che sfiorì gli alberi, frantumò il cielo fino a far cadere pezzi di nuvole, bianchi, al suolo. Amore che distrusse tutto ma che, con atto bonario e sguaiato, mi lasciò una finestra dove poggiare il capo e costruì questi due solchi, sulle guance tremolanti. Nelle tormente di sudore e labbra sanguinose del sonno mi aggrappavo a queste coperte umide. Pregavo il tempo; affrettati! Fai come il muratore diligente: ricostruisci il mio cammino ma non su carne molle, bensì su terra dorata di Sole.
Eccomi qui, allora, a camminare su ciuffi d’erba, tanto timidi e silenziosi nel crescere sotto la neve.
Calpesto tutti i vetri delle mie lacrime. Ormai non mi taglio più, è Primavera.
Con l’anima in spalle cammino verso l’orizzonte, rimpicciolendomi, finché la mia ombra non si confonde con i fiori di campo.